Primo giorno di neve.
La metropoli sembra abbia smesso di urlare, assopita come per incanto. Si smorzano i suoni, si fanno silenziosi i passi della gente per strada – cauti ed incerti come quelli di un bambino – si affievoliscono le percezioni. Con la neve emerge una realtà diversa in cui le persone si affaccendano con operosità ovattata spalando, facendo rifornimenti di combustibile per le case, sfoderando ogni foggia di palette e pennelli per rimuovere la coltre bianca dalle vetture e dal mondo.
Provo una gioia sobria, tenue ed infantile nel calpestare i sentieri intonsi del parco vicino casa, nel vedere le mie orme senza tuttavia che ai miei passi corrisponda un suono. E mi ritorna in mente l’apologia del silenzio fatta da un pensatore indiano, laddove il silenzio non è assenza di vita ma, al contrario, sublimazione del puro essere. Mi ritornano in mente i film “dickensoniani” trasmessi per televisione a Natale, che mi sono sempre sembrati icone di una realtà manicheistica inesistente. Mi torna in mente il titolo di un libro amaro, ma non disperato, che racchiude, forse, l’essenza di questa città e di questa mia giornata, Canto della neve silenziosa.
Camminando parallela alla strada su marciapiedi ancora non contaminati da passi invadenti, vedo con chiarezza il limite tra il bianco della neve pura e il nero di quella già violata dalle ruote delle macchine che passano. La coesistenza labile e netta ad un tempo degli opposti. Vedo questo mondo nuovo, lento, insonorizzato ma vivo. O forse cosí mi piace vederlo. Con gli occhi stupiti di una persona vissuta nel tepore affettuoso di un paese mediterraneo.